io, Johan Cruijff, il Philips K7 e la fermata di Mergellina.

Napoli, marzo 2016.



Guardando giocare Johan Cruijff ho imparato tante cose.
Erano gli anni antichi in cui il calcio in tv era più che centellinato. 




Fino ai miei dieci anni, tutto quello che si poteva vedere era un solo tempo di una partita di calcio di Serie A, trasmesso dalla Rai intorno alle 19, e null’altro perché la Domenica Sportiva si trasmetteva in un orario in cui i bambini come me erano già a letto.
Nel ‘69 avevo visto con mio padre, ovviamente in bianco e nero, questo giocatore esile perdere la Coppa dei Campioni (la Champion’s League dell’epoca) con la sua squadra, che aveva il nome di un famoso detersivo venduto da noi alla Standa: Ajax. Vinse il Milan, con una memorabile tripletta di Pierino Prati.
A quell’epoca avevo già visto alcuni sparuti filmati di Pelè, pochi per capire e conoscerne la grandezza. In un documentario avevo visto le immagini dello stesso Pelé a Milano per la Coppa Intercontinentale, perdere 4 a 2 dal solito Milan. Però, insomma, tutti ma proprio tutti, dicevano che Pelé era il calciatore più bravo del mondo e io mi fidavo.
Ecco perché non capivo l’entusiasmo e l’ammirazione di mio padre per quel giovane olandese. Io, bambino, ero colpito da quelli che facevano i palleggi, le rovesciate, i tunnel e quel tizio non era così smaccatamente plateale.
Nel 1970, ai mondiali di Messico 70, ebbi modo di fare esperienza da tifoso principiante con due episodi leggendari del nostro calcio: vissi la gioia di Italia-Germania 4 a 3 e la successiva delusione per la sconfitta in finale con il Brasile, persa per 4 a 1.
Johan Cruijff ricompare sui nostri piccoli schermi a 50 sfumature di grigio per ben tre anni di seguito.
Per tre finali della Coppa dei Campioni.
E le vince tutte e tre. Così, tanto per dire.
La prima contro il Panathinaikos allenato da Puskas.
Io ricordo, in particolare, la seconda vinta contro l’Inter. Cruijff era guardato a vista dal futuro campione del mondo Lele Oriali, una vita da mediano come da apposita canzone di Ligabue, ma nonostante le attenzioni del nostro grande difensore, segnò due gol e portò a casa la Coppa.
E poi, la terza di seguito, vinta contro la Juve.
La prima cosa che mi ha insegnato Cruijff è che si possono fare scelte non convenzionali senza per questo risultare necessariamente eccentrico. Parlo del suo numero di maglia il 14, scelto al posto del numero 10 degli altri registi star dell’epoca, in un periodo in cui non c’erano ancora i nomi sulla schiena e la consuetudine era quella di scendere in campo con i numeri dall’1 all’11. Fino a quel momento il 14 era un numero da riserva, rincalzo. 




Cruijff mi ha insegnato che non è il numero che fa il campione ma viceversa.Cosa che ho traslato anche in altre attività della vita: non è importante l’etichetta o il titolo ma quello che fai. E insomma, la mia mamma fu obbligata a scucire il secondo numero 1 dell’ “11” che c’era sulla mia maglia del torneo della scuola e  a ricucire un 4 al suo posto. 
Di Cruijff mi piaceva anche il fatto che non fosse identificabile nè come destro nè come sinistro puro: questo semplicemente perché non si riusciva a capire con quale dei due piedi fosse più fenomeno. 
Guardando Cruijff ho imparato a conoscere la cosiddetta finta di corpo: anche a palla ferma puoi far finta di scattare da una parte o dall’altra e il difensore che guarda te e non il pallone ti viene dietro. 
Stessa cosa quando il pallone ti scorre davanti in linea retta: tu con il corpo puoi fai finta di andare di qua o di là, e il tuo marcatore ti segue. Bellissimo: fino a quel momento non ci avevo mai pensato.
Non lo so spiegare bene a parole ma Cruijff è stato il primo che ho visto, come dico io, ad avere la maglietta che gli correva dietro.
Non so quale sia l’effetto ottico, dato secondo me dal corpo esile combinato con la velocità, fatto sta che in piena corsa lui aveva la maglietta che sbandierava dietro la sua schiena. L’ho rivisto solo con Roberto Baggio, poi sono arrivate le orride magliette elasticizzate.
Ed eccoci ai Mondiali del 74. Li avevo aspettati tanto: perché un’attesa di quattro anni, per un ragazzino di nove, significa mezza vita. Vi giungevo da maturo tifoso tredicenne titolare di un progetto autoideato e molto ambizioso: 
registrare con il mio moderno registratore a cassette Philips K7 tutti i gol del campionato del Mondo Munchen 74.





Può sembrare superfluo, per alcuni, ricordare che il videoregistratore non esisteva. E neanche le riprese televisive di oggi, con venti telecamere e cento replay. Il gol te lo vedevi in diretta e, al massimo, nel seguente unico replay accompagnato da una “R” lampeggiante caso mai non avessi capito cosa stesse accadendo.
Questo significava che, ad ogni azione pericolosa, io schiacciavo Rec e Play e, con il microfono avvicinato al televisore Brionvega registravo la voce del telecronista. Se l’azione non si concludeva in gol, facevo ritornare velocemente indietro la cassetta, per non sprecare il prezioso e costoso nastro della C-90 Philips a pallini blu e mi preparavo a registrare di nuovo. Il tutto sperando che nessuno segnasse durante l’operazione di riposizionamento del nastro. 





E sorvolerei sul fatto che gli sfortunati che guardavano la partita con me erano obbligati al silenzio durante la registrazione dei gol per non rovinare l’ufficialità del prezioso archivio.
Cruijff guidò l’Olanda strepitosa del calcio totale fino alla finale. Dell’Italia di Valcareggi, reduce dal favoloso Mondiale del ’70, ricordiamo ben poco: il gol dell’haitiano Sanon che interruppe l’imbattibilità-record di Zoff, il gesto di vaffa di Chinaglia all’allenatore che l’aveva sostituito (guardando quello che combinano oggi certi calciatori, fa quasi tenerezza) e l’eliminazione da parte della Polonia di Lato, Szarmach, Deyna e Tomaszeski, il portiere con i capelli lunghi e la fascetta a legarli.
Durante la finale Germania- Olanda, assimilai  un altro insegnamento da Cruijff. Fra una registrazione audio e l’altra, notai un particolare: le maglie arancioni della squadra erano sponsorizzate dall’Adidas, sponsor principale della manifestazione  che fra l’altro giocava in casa, Germania, Paese del fondatore Adi Dassler. Ma Cruijff, lui personalmente, era sponsorizzato dalla Puma, praticamente il nemico numero uno dell’Adidas. E insomma, vidi che lui aveva fatto scucire dalla sua maglia una delle tre strisce longitudinali che partono dal collo e percorrono spalle e braccio fino alla manica, simbolo appunto dell’Adidas ed aveva giocato con la maglietta diversa, solo due strisce. 






Capii, insomma che si potevano mandare messaggi precisi di appartenenza senza rumorosi proclami e con un briciolo di furbizia. Stessa appartenenza, più politica e meno “economica”, Cruijff la dimostrerà in seguito con le due simboliche partite giocate nella Nazionale della Catalogna.
Poi c’è stata la lezione sui simboli e i sentimenti: dopo il passaggio al Barcellona (per cifre sbalorditive all’epoca) e il conseguente divieto di poter giocare con il numero 14 (categoricamente dall’ 1 all’11 nella Liga spagnola) lui ha sempre giocato con la sua maglia 14 messa sotto quella ufficiale, con il 9. Con il 9 sopra e il 14 sotto ha segnato il “gol impossibile” in Barcellona-Atletico Madrid, in rovesciata di tacco. E' andato in cielo ad incontrare un pallone che chiunque altro avrebbe provato a colpire di testa ma lui inventò una torsione irreale mai vista su un campo di calcio lasciando sbalorditi avversari e compagni.






Sì, ho imparato parecchie cose da Cruijff, sul calcio e su altro..
Gli ho voluto bene come a un fratello lontano quando dalla sua Olanda arrivò a Napoli Rudi Krol, il primo straniero alla riapertura delle frontiere, quando ce ne poteva essere solo uno per squadra. E pensavo che, se a ricevere i lanci millimetrici di 60 metri del buon Rudi ci fosse stato Johan, le soddisfazioni sarebbero state altre.




Fortunatamente dopo qualche anno, a Napoli arrivò un altro numero uno.
Ma oggi i miei pensieri non sono per lui, sono per il ricordo di Cruijff, il Profeta del Gol come lo chiamò Sandro Ciotti nel suo film, che puntualmente andai a vedere al cinema: un’intera pellicola su un calciatore proiettata nelle sale: non era mai successo.

 
E fu bello rivedere a colori e con una definizione finalmente decente, le immagini che avevo visto nel piccolo Brionvega a casa, con il microfono del Philip K7 in mano.
L’ultimo insegnamento, Cruijff me l’ha dato oggi, il giorno dopo la sua morte: mai concentrarsi troppo a scrivere qualcosa che ti prende molto quando sei in metropolitana: riemergerai all’improvviso dai tuoi pensieri, dai tuoi ricordi e ti accorgerai che la Stazione di Mergellina, dove dovevi scendere, è già passata da tre fermate.



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