Io, il Frecciarossa, il piatto di carta e le tare discordanti.
Oggi, a pranzo sul treno, e già l’inizio non è
esaltante, aggiungiamoci pure la dieta, ho ordinato una insalata e un piatto di
prosciutto crudo.
Quindi mi sono seduto davanti al finestrino con
panorama scorrevole, secondo, in quanto a potere ipnotico solo all’oblò della
lavatrice in azione mentre fa il bucato, e ho mangiato guardando la pianura e
le sue cascine arrivare da destra e riallontanarsi a sinistra a trecento
all’ora.
Nel vassoietto c’erano i due piatti di carta, uno con
l’insalata e uno con il prosciutto, le due mini bottigline di olio e aceto, la
bustina con il sale, la lattina di coca zero, il bicchiere di plastica e la
bustina con il completo posate-salviettina.
Tutto occhèi, tutto è filato liscio fino alla fine.Chi mi conosce potrà immaginare quanto dura sia stata la fatica per procedere in maniera paritaria e parallela fra il consumo di insalata mista, compresi i mille capellini arancioni di carota, e quello delle fette di prosciutto per arrivare al traguardo in maniera uniforme, come da mia tradizione di consumatore autistico.
Ma oggi non voglio parlare di questo.
Alla fine del frugale pasto, essendoci in arrivo un caffè, previsto dal menu, ho pensato di sovrapporre i due piatti di carta ormai vuoti, usati e sporchi, per guadagnare un po’ di superficie utile per la tazzina. E’ a questo punto che mi sono accorto che il piatto dove c’era l’insalata, ormai vuoto, era più pesante del piatto del prosciutto, vuoto anch’esso.
Tare discordanti.
Come è facile capire, il piatto di carta su cui mi era
stata servita l’insalata era doppio, due piatti sovrapposti, che non si erano
separati quando la signora al banco li aveva preparati: è una cosa che accade
con una certa frequenza con questo tipo di accessori.
I piatti dei Frecciarossa, seppure di carta, sono belli.
Innanzitutto sono proprio di carta. Perché io chiamo
‘piatti di carta’ tutti i piatti usa e getta, anche quelli di plastica, che mi
piacciono meno.
I bicchieri, invece, li chiamo sempre ‘bicchieri di
plastica’, vai a capire le sinapsi cerebrali, soprattutto quando devo dire:
“no, il vino nei bicchieri di plastica no!”, mentre il cibo potrebbe essere
adagiato anche nella tinozza di Moplen di Gino Bramieri che non me ne
fregherebbe nulla.
Insomma, separo il piatto dell’insalata dal suo gemello sottostante e mi si palesa questo terzo piatto bello, di cartone rigido, resistente.
Da Bologna Centrale a Reggio Emilia AV ho riflettuto sul da farsi.
Perché la mini bottiglina dell’olio, ma proprio mini mini, ugualmente inusata, me la posso mettere in tasca e portare a casa. E’ pagata.
Ma il piatto, questo bel piatto nuovo no, non posso mettermelo in tasca, ne’ metterlo in valigia o nello zainetto senza passare per matto. E comunque si piegherebbe, sformerebbe e non potrebbe servire più a nulla.
Ho fatto venire alla luce un piatto di carta - letteralmente, l’ho separato dall’altro suo gemello ed esso per la prima volta è venuto a contatto con il mondo circostante - e ora lo getto via, senza che sia stato usato? Non me la sento.
Mi chiedo: per un piatto di carta, è meglio essere usato per lo scopo per cui è stato creato, o è meglio rimanere un cerchio di cartone pressato lindo e pinto?
Lui sa di essere un piatto di carta, vuole adempiere alla sua missione in quanto tale oppure invece preferirebbe essere sì gettato nel cestino, perché quella è la fine di tutti i piatti di carta, ma bello pulito, senza macchia, per presentarsi al giudizio universale dai macchinari del riciclaggio puro e innocente?
Cioè: fin dove giunge la sua consapevolezza?
Sa di essere carta?
Sa di essere piatto?
Sa di essere piatto di carta?
Se io lo getto in queste condizioni, nuovo nuovo, nella spazzatura forse lo metto in difficoltà: in mezzo a tutti gli altri piatti usati, vissuti, con una carriera alle spalle, egli farebbe la stessa figura che fa, a un incontro di bambini scalmanati che giocano a pallone, quello che si presenta tutto ordinato, con la camicia bianca e il cravattino, i pantaloni di velluto a coste corti, le polacchine Clark scamosciate e dice: “Amici, ci sono anch’io!”
Sarebbe lo zimbello del gruppo.
Oppure, da un altro punto di vista, potrei essere l’artefice di un avvenimento memorabile: l’arrivo in un contesto da sempre ben definito, il bidone dei rifiuti, nel quale storicamente esistono solo piatti usati, brutti sporchi e rassegnati, di un elemento bello, sfolgorante nella sua purezza, che possa essere esempio e speranza per tutti gli altri, il Messia dei piatti di carta: “Se lui è così bello, così bianco, così perfetto, anche noi possiamo riscattarci!”
Ma poi cosa succederebbe?
Gli altri piatti vorrebbero imitarlo? Si sa, l’emulazione è contagiosa. E se tutti gli altri piatti di carta dei treni Frecciarossa cominciassero a rifiutarsi di voler fare il lavoro sporco? Se decidessero di propendere tutti alla pulizia, all’eleganza, e comunque si dedicassero più all’aspetto esteriore invece che ai tradizionali valori dell’essere piatto di carta, salvagente di tutte le feste e le cene improvvisate, aiuto delle casalinghe, conforto dei singles di tutto il mondo?
Sinceramente, non me la sento di mettere a rischio questo radicato e delicato equilibrio universale.
- Signore, dia a me, quel piatto glielo butto io…
- No, grazie, lo porto con me…
- Con... lei?!?
- Sì, ci devo scrivere.
- Scrivere sul piatto?
- Sì, un raccontino. Grazie, arrivederci.
- Arrivederci, buon viaggio.
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