io, la chitarra smarrita, il nord, il sud e la corda Mi Basso
Napoli, luglio 2017
Nei primi giorni di agosto, una mia amica, in arrivo dal nord, trascorrerà qualche giorno nella mia micro casa di Napoli.
Il sindaco non lo sa ma meriterei una
medaglia o almeno un’onoreficenza (Cavaliere dei Campi Flegrei, Commendatore di
Forcella, Benemerito della Finestrella di Marechiaro) per l’opera di
divulgazione turistica, culturale e gastronomica che svolgo con sincero
entusiasmo offrendo agli amici il piacere di poter stare qualche giorno con il
mare di fronte e una città viva e propositiva alle spalle.
Nell’ultima giornata trascorsa nella casetta, ho cercato di combattere un corpo a corpo con l’entropia che trova in questo luogo, pur all'apparenza così piccolo, il rifugio ideale, per lasciare tutto in condizioni di sufficiente presentabilità. Ad un certo punto, l’occhio mi cade sulla chitarra nell’angolo, a destra della finestra: una classica da studio del 1973, Made in Brazil, proveniente dalla fabbrica di "Violões Finos Romeu Di Giorgio” fondata, fra l’altro, da un signore nato a Roma nel 1889.
Nell’ultima giornata trascorsa nella casetta, ho cercato di combattere un corpo a corpo con l’entropia che trova in questo luogo, pur all'apparenza così piccolo, il rifugio ideale, per lasciare tutto in condizioni di sufficiente presentabilità. Ad un certo punto, l’occhio mi cade sulla chitarra nell’angolo, a destra della finestra: una classica da studio del 1973, Made in Brazil, proveniente dalla fabbrica di "Violões Finos Romeu Di Giorgio” fondata, fra l’altro, da un signore nato a Roma nel 1889.
Allo scoccare del centenario della nascita del signor Romeu Di Giorgio, nel
1989, io e la chitarra ci incontrammo ad una cena di amici, quando il padrone di
casa la tirò fuori e la strimpellammo un po’. Si scusò dicendo che le corde
erano un po’ vecchie e usurate ma diciamo che per il nostro scarso livello
riguardo ai tentativi di riproduzione di alcune semplici melodie popolari e
l’alto tasso superalcolico del dopocena, lo strumento si rivelò all’altezza
(bassezza) della situazione.
In un momento di inconsulto slancio propositivo,
dissi al proprietario dello strumento: “Se vuoi, me la porto a casa, cambio le
corde e te la restituisco”.
Oltre all’avermi seguito in una decina di
miei cambi di domicilio, da quel momento l’agile chitarra Di Giorgio mi ha fatto
compagnia in tantissimi viaggi, essendo molto più leggera della Martin acustica
fino a quel momento strumento ufficiale delle tournée.
E, fresca del cambio di corde, una delle
prime uscite della chitarra Di Giorgio fu in occasione del mio viaggio al nord, a
Bolzano, per fare una visita al mio amico Salvatore, trapiantato dal sud, Caserta per la precisione, in quei luoghi lontani e sconosciuti, a causa di trasferimenti da Pubblica Amministrazione.
Ma l’amicizia è amicizia e nel 1990 creammo l’occasione
per cantare a Piazza Delle Erbe il meglio di Pino Daniele senza che nessuno degli
autoctoni ce lo avesse richiesto.
Al ritorno alla casa di Salvatore, in via
Palermo, ci fermammo con qualcuno a fare le ultime chiacchiere sotto al
portone, infine andammo a dormire.
Al risveglio, mi resi conto che la chitarra
non c’era più.
L’assenza del prezioso prodotto della
liuteria sudamericana era determinata, senza dubbio, dall’annebbiamento
notturno della mia memoria per le eccessive libagioni di grappa del trentino.
Non ricordavo proprio nulla: l’avevo dimenticata,
abbandonata, barattata con il bicchiere della staffa? In piazza, al pub, fuori
al portone?
Le mie speranze riposte in Salvatore, semi
astemio, la cui serata era rimasta entro i limiti accettati dalle convenzioni
internazionali e dagli alcolisti anonimi, andarono deluse: neanche lui
ricordava nulla. Scattarono le ricerche: innanzitutto all’interno di tutto l’appartamento
di via Palermo, Bolzano: non si sa mai, un’ultima strimpellata in bagno, uno
stivaggio inconsulto nel ripostiglio, una sciorinata fuori al balcone sul filo
dei panni… Nulla.
Scesi giù di corsa, senza aver ancora deciso
una meta precisa e incominciai mentalmente a formulare un itinerario da seguire
dei luoghi di sosta della notte precedente dove qualcuno si era sicuramente
appropriato indebitamente della mia Di Giorgio ’73.
Maledetti bolzanini, poi dicono di noi
napoletani…
In quali mani poteva essere finito l’indifeso
strumento musicale?
L’aveva rapita quello che chiedeva l’elemosina davanti
al ristorante Il Cavallino Bianco? Barba lunga e accento tedesco. Bravo, bravo!
Non ti avevamo dato cento lire e tu ti sei fregato la chitarra. Maledetto…
Forse era stato il ciclista che si era
fermato ad ascoltarci in piazza delle Erbe, dicendo che aveva un nonno
napoletano? Hai capito il furbetto: aveva finto familiarità per fuggire col
reperto brasiliano…
E il portiere dell’Hotel
Laurin? Che a notte fonda era uscito dicendo che facevamo troppo casino? E’
così che si era vendicato. L’avevo capito subito che era un bastardo...
Ma… ecco che mi si prospettò la celestiale
visione: ancora prima di uscire dal palazzo, vidi un piccolo foglietto apposto
con lo scotch sul vetro del portone: “Chi avesse dimenticato una chitarra nell’atrio
può ritirarla presso INTERNO 16”.
Gioia della vita.
Cuore traboccante di riconoscenza.
Cari, accoglienti, gioviali altoatesini,
popolo altamente civilizzato, con spiccato senso civico e indubbia moralità,
mai nemmeno per un attimo, nemmeno nello sconforto più buio, ho sospettato di
alcuno di voi.
Citofono:
-
Buongiorno,
sono Riccardo Cassini, il padrone della chitarra
-
Salve,
sono Paola, venga, quarto piano
Fu così che Paola mi restituì la chitarra raccomandandomi di non lasciarla più nel vaso del ficus benjamin nell’androne. Glielo promisi con ingigantita enfasi, quella dei bambini quando promettono che non rifaranno mai più la marachella per la quale sono stati scoperti, infine la salutai e ringraziai.
Ecco, questa è la chitarra su cui il mio sguardo si è poggiato lieve mentre riordino la casetta di Napoli.
Ripercorro velocemente alcuni di questi
episodi che riguardano me e lei, e penso che da quel lontano 1989 non ho MAI
più cambiato le corde.
Sì, lo so, a questa confessione i tecnici, i
puristi, i professionisti potrebbero insorgere ma in fondo io sono un anziano
dilettante allo sbaraglio che suona a orecchio e le corde, soprattutto quelle
di nylon, soprattutto le prime tre, il Mi Cantino il Si e il Sol non rivestite,
tendono a rovinarsi molto più lentamente.
Sì, lo so che avrei dovuto cambiare le corde ogni tanto ma nessuno mi ha mai detto quanto è questo ogni tanto: io non ho mai fatto una lezione, anche se
so che i Maestri di Chitarra suggeriscono di cambiare le cord… Aaghh! Cosa ho
detto: i Maestri di Chitarra!
Mi sovviene che il fidanzato della mia amica
che soggiornerà qui, e vedrà la mia Di Giorgio studio 1973 con le corde vecchie
di 28 anni è, per l’appunto, un Maestro di Chitarra.
Un Maestro di Chitarra! MadonnaCheFiguraDiMmer...
Un Maestro di Chitarra! PorcaMiseriaCheScuorn…
Un Maestro di Chitarra! AzzCheGrezz…
Mi autotranquillizzo, nulla è perduto, sono
ancora in tempo: nella mia prevista passeggiata pomeridiana del sabato, al centro,
comprerò una muta di corde nuova per la chitarra. Riaffiorano da molto lontano nei
ricordi, i nomi di marche di corde per chitarra classica e non so neanche se
esistono ancora: D’Addario, Savarez… chissà.
Sarà l’occasione per ritornare in via San
Sebastiano.
Per un quarto della mia vita napoletana, via
San Sebastiano è stata la strada dei sogni.
Dai 15 ai 20 anni sono andato nella ‘strada
degli strumenti musicali’ ogni volta che, dopo aver risparmiato in mille modi e
con discreti sacrifici, con Marco, Costantino e Giancarlo, i quattro componenti
di un gruppo che non ha mai avuto un nome, ci potevamo permettere un agognato acquisto:
quando un amplificatore Marshall usato, quando un distorsore, un wah-wah, quando
ancora bacchette nuove per la batteria, armoniche a bocca. Erano quasi sempre
accessori, molto raramente i pezzi grossi: un basso, una chitarra, una
batteria.
Non so se esista una strada corrispondente in
un’altra città, in tutto il mondo: tutta e solo di negozi di strumenti
musicali.
O, almeno, così era fino al 1980, quando io sono andato via, ora diciamo che kebab e panini si sono insinuati anche negli spazi fra i righi musicali dei pentagrammi. Ma molti negozi storici resistono strenuamente grazie alla radicata anima musicale di Napoli.
O, almeno, così era fino al 1980, quando io sono andato via, ora diciamo che kebab e panini si sono insinuati anche negli spazi fra i righi musicali dei pentagrammi. Ma molti negozi storici resistono strenuamente grazie alla radicata anima musicale di Napoli.
Tutto è partito dal Conservatorio nelle vicinanze,
fondato nel 1800, frequentato, in ordine sparso, da Ruggero Leoncavallo, Riccardo
Muti, Renato Carosone, Roberto De Simone, Salvatore Accardo, Enzo Avitabile e
Gigi D’Alessio. Intorno al Conservatorio, aprirono i primi negozi di strumenti
musicali: negli anni ‘30 e ’40 le piccolissime botteghe di Bellarosa, De Falco,
Loveri, poi fu il turno di qualche musicista famoso come Miletti, batterista di Carosone.
Ogni volta che scendevo a San Sebastiano era una sorpresa. Non passava mai un giorno di visita nella strada della musica senza incontrare Pino Daniele, i due Bennato, Murolo, che spesso si intrattenevano all’interno, su sediacce di legno per il solo gusto di suonare per suonare. Un musicista con uno strumento in mano non riesce a stare fermo, in silenzio, più di un minuto, è un postulato.
Ogni volta che scendevo a San Sebastiano era una sorpresa. Non passava mai un giorno di visita nella strada della musica senza incontrare Pino Daniele, i due Bennato, Murolo, che spesso si intrattenevano all’interno, su sediacce di legno per il solo gusto di suonare per suonare. Un musicista con uno strumento in mano non riesce a stare fermo, in silenzio, più di un minuto, è un postulato.
Per dire che tempi erano, un giorno andai a
comprare dei plettri con mio fratello Dario che aveva 8 anni e al ritorno, a
casa, lui narrò stupito, al resto della famiglia, di aver visto “un nero che
parlava come un tamarro napoletano”. Sì perché nel ‘75, incontrare un nero a
Napoli era alquanto raro e, per sentirlo parlare in napoletano stretto, dovevi
aver incontrato, come infatti era accaduto, giusto James Senese.
Purtroppo non ho considerato che siamo di sabato pomeriggio, per giunta estivo, perciò, con sorpresa, mi accorgo che tutti i negozi della Strada della Musica sono chiusi.
Purtroppo non ho considerato che siamo di sabato pomeriggio, per giunta estivo, perciò, con sorpresa, mi accorgo che tutti i negozi della Strada della Musica sono chiusi.
Dramma.
Tragedia.
Catastrofe.
Non mi rimane che ammettere la grave colpa e
preavvisare, con il capo cosparso di cenere, amica e fidanzato Maestro di Chitarra
che, se vorranno suonare la Di Giorgio studio 1973, dovranno portare delle
corde nuove da casa del Maestro di Chitarra, in Vercelli.
Il mio sabato si conclude a casa.
La tendenza al caos del piccolo appartamento è temporaneamente arginata.
All’indomani ritornerò a Roma.
Spengo la luce e lascio entrare solo quella proveniente dall’esterno della mia finestra, dal
Golfo di Napoli.
Birretta Baladin Isaac artigianale.
Birretta chiama tarallo.
Tarallo sugna e pepe con mandorle del tarallificio
Leopoldo.
Birretta e tarallo chiamano chitarra.
La Di Giorgio Studio 1973 è lì, in piedi nel
suo angolino.
Decido di suonare l’ultima canzone e poi
togliere le corde e dare un minimo di lustratina allo strumento, perché mi
vergogno seriamente che il Maestro di Chitarra possa vederla così.
Poi, il Maestro di Chitarra provvederà a montare la nuova muta di nylon, come da accordi. (Accordi! Haha! Battuta musicale, fra noi Maestri…)
Poi, il Maestro di Chitarra provvederà a montare la nuova muta di nylon, come da accordi. (Accordi! Haha! Battuta musicale, fra noi Maestri…)
Prendo la chitarra: già so che suonerò un
classico del mio repertorio, molto apprezzato (da me e solo da me): From the
Beginning di Emerson, Lake & Palmer, imparata a memoria e a orecchio, consumando il vecchio vinile.
C’è una lunga intro solo strumentale.
E poi, succede.
Succede che, all’arrivo di quello che
tecnicamente, con il mio bagaglio tecnico e la mia nota conoscenza di teoria
musicale, io chiamo l’accordo “sbreng!”, ovvero schitarratina col polpastrello
del pollice da su verso giù sulle sei corde, la prima di queste, la più spessa,
il Mi Basso, si spezza.
Ora, le corde delle chitarre si spezzano.
A maggior ragione quelle vecchie di 28 anni.
Però questa…
Questa qui ha fatto il suo dovere fino all’ultimo
giorno, ha resistito strenuamente la settimana scorsa quando ho ripassato “The
Cinema Show” dei Genesis, e anche un mese fa quando avevo suonicchiato, come
solo io non so fare, “Blackbird” dei Beatles e invece ora, ora ha deciso di chiudere la sua
carriera di corda durante l’ultima canzone.
Sì, perché, finita l’esecuzione (im)perfetta o
molto vicina alla (im)perfezione del mio pezzo e ricevuta l’usuale standing ovation
da parte degli scogli del Golfo, avevo già deciso di toglierle, quelle corde. Ma il Mi Basso, quello robusto, quello col
vocione, il più grande e carismatico del gruppo, il condottiero, deve aver
pensato: “Decido io quando è il momento di andare via, non tu”.
Va bene, Mi Basso, hai ragione.
Rispetto la tua decisione anche se, lasciare
a metà una canzone, con mezzo tarallo e mezza birretta mi provoca dei rodimenti
interiori che tu neanche immagini.
Ma è giusto così. Del resto, è il sogno di
tutte le corde, finire la propria carriera suonando.
Se non ti offendi, non ti butto via. Anche
perché dove va una corda di nylon rivestita di metallo? Indifferenziato?
Metallo? Non riciclabile?
Suggerirei per te un futuro da braccialetto.
Sì, ti farò conoscere un laccetto di cuoio
molto simpatico, ti troverai bene.
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